Dino Mancini in occasione della Giornata della Memoria 2025, è stato insignito della medaglia d'onore concessa dal Presidente della Repubblica ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l'economia di guerra e ai familiari dei deceduti. A ritirarla è stato il figlio Gino. Gino Mancini, che forse in molti conoscono come "Gino del Semprepiovi", cioè il libraio. Gino per anni è stato il commesso di una delle librerie più note, più grandi e più fornite della città, dispensando consigli e buone letture a generazioni di empolesi.
E' andato lui nella sala Buonumore del Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze dove si è tenuta la cerimonia nel corso della quale il Prefetto di Firenze, Francesca Ferrandino ha consegnato le medaglie. «Mi hanno informato di questa cerimonia e della medaglia che era stata destinata alla memoria di mio padre pochi giorni fa - spiega Gino Mancini - ho pensato che fosse giusto che il suo sacrificio fosse in qualche modo riconosciuto».
E anche conosciuto dai più giovani. La storia di Dino Mancini è simile a quella di molti giovani italiani (lui, in realtà, ne aveva già 31 di anni quando si sono svolti i fatti) che all'indomani dell'8 di settembre si sentirono sbandati. Dino Mancini era, nel 1943, in servizio militare: faceva il telemetrista nel quarto Artiglieria contraerea e si trovava a Berat, nell'aeroporto di questa cittadina albanese. Il suo reparto venne catturato a Patrasso. Gli fu detto che sarebbe andato ad Atene e che da lì sarebbe tornato in Italia. Non fu così: i carri bestiame sui quali furono caricati in Albania dopo otto giorni di viaggio giunsero a Spandau, alle porte di Berlino. Mancini fu nominato capoblocco di quello che si chiama - come recita la piastrina che portava al collo e che ora il figlio Gino conserva gelosamente - lager 3A.
«Mio padre non ha raccontato per lungo tempo quel che avveniva nel campo- racconta Gino - ha cominciato a farlo con i nipoti, con mio figlio Simone, quando era piccolo». Qualche episodio lo riporta anche Claudio Biscarini, nel suo articolo: Dino ricopriva l'incarico che gli era stato affidato con diligenza e responsabilità. Anche perché se qualcosa non fosse in ordine nella baracca, tutti gli occupanti venivano puniti. A volte con percosse, con secchi di acqua gelida versata sui giacigli. Al nipote ha raccontato qual era il pasto tipo di una giornata: gamellini di minestra di rape bollita o altre erbe selvatiche, pane di segale che dovevano spartirsi in cinque.
«Babbo era appassionato di meccanica - racconta ancora Gino - l'aveva coltivata da ragazzo con il suo amico Mario Zalli. Così in Germania si fece passare per meccanico e venne spedito dai tedeschi a lavorare alla Bmw. All'epoca era una fabbrica di motori per gli aerei. In fabbrica trovò un capo meccanico che era un civile tedesco, comunista, che capì la sua situazione e gli procurò del cibo. Ma si fece notare anche per la sua bravura, perché era un giovane intraprendente al punto che si conquistò le simpatie anche dei tedeschi militari che erano stati destinati alla fabbrica».
Questo gli permise anche di conquistare una certa libertà, poteva girare libero per la città. Spandau fu liberato, come altri campi, nell'aprile del 1945. A fine mese, dalle truppe tedesche. Con la famiglia abitava in piazza della stazione, a Empoli, nel palazzo della famiglia Zalli, contigua alla cereria che avevano in quell'area. Quando fu il momento di tornare, lui sarebbe rimasto anche in Germania: aveva un lavoro, era ben considerato. A fargli cambiare idea fu l'incontro con alcuni ferrovieri livornesi che incontrò a Berlino: chiese loro se sapevano com'era messa Empoli alla fine della guerra e questi risposero che la città era stata rasa al suolo. Così Dino decise di tornare per vedere che fine avevano fatto i suoi genitori. E quando arrivò in treno, ancora prima che il convoglio si fermasse, vide da lontano che la ciminiera della vetreria era intatta. E così doveva essere anche la sua casa di famiglia che era proprio lì sotto: il padre era fuochista della cereria. A Empoli trovò i suoi genitori. Trovò l'amore e poi nacque Gino, il figlio che adesso ha ricevuto nelle sue mani quell'onoreficienza che è stata assegnata al suo babbo.
«Da ragazzo faceva il vetraio - racconta ancora il figlio Gino - poi quando tornò dalla Germania, si mise a commerciare birra: aveva un ingrosso in via Chiara. E quando questa attività fu chiusa, tornò a fare il vetraio in un'azienda di Montelupo».