L'arte empolese tra 1925 e 1960 è una storia di amicizia, fatica, tenacia, migrazioni, ritorni, guerre, speranze, riscoperte. È la storia di giovani nati in una provincia operaia e agricola, ma capaci di dialogare con Parigi, con Venezia, con la grande cultura nazionale e internazionale.
Attraverso le loro vite – fra vetri fusi, xilografie potenti, scenografie teatrali, paesaggi toscani, astrattismi geometrici, affreschi sacri, vignette umoristiche e incontri inattesi – Empoli rivive un pezzo fondamentale della sua identità: una provincia che non temeva il Novecento, ma lo guardava come un'occasione per uscire da sé e diventare altro.
Sono queste storie a fare della mostra Provincia Novecento non solo un evento espositivo, ma un atto di restituzione: il riconoscimento di un'epoca in cui Empoli seppe essere molto più di ciò che sembrava.
Alle spalle della vitalità industriale e operaia di Empoli, nei decenni che segnano il passaggio dall'inizio del Novecento alla ricostruzione postbellica, scorre una seconda storia: meno visibile, ma altrettanto tenace. È la storia di un gruppo di artisti – pittori, affrescatori, decoratori, incisori, ceramisti – che, dalla “stanzina” di via Tripoli fino alle aule dell'Istituto d'Arte di Porta Romana, hanno dato forma a una piccola, sorprendente capitale della modernità toscana. La mostra Provincia Novecento riunisce oggi quelle vite e quelle opere, restituendo alla città un patrimonio creativo che fu, allora, il modo empolese di stare dentro il Novecento.
Gli inizi: vetrai, apprendisti e autodidatti. La storia potrebbe cominciare dal rumore dei forni. Non a caso, molti artisti empolesi provengono dal mondo del vetro: Dante Vincelle, per esempio, nasce in una famiglia di origine francese e inizia la sua formazione non in una scuola d'arte, ma in uno degli opifici che punteggiavano la città. La manualità del vetraio – la precisione, il gusto per la materia, la sfida della temperatura – è la sua prima palestra.
È un autodidatta, Vincelle, e lo resterà a lungo: quando nel 1921 il suo Ponte Vecchio a Firenze viene ammesso alla Prima Biennale romana, si trova improvvisamente catapultato in un ambiente d'élite. Ci arriva dalla provincia, con un bagaglio di tecniche assorbite fuori dalle accademie, ma con un intuito cromatico già maturo. Da quel momento la pittura diventerà per lui un mestiere, una scelta, quasi un destino.
La provincia, però, non basta più. Così, nel decennio successivo, compirà due soggiorni a Parigi, dove esporrà al Grand Palais e dove il suo linguaggio, oscillante fra naïf, primitivismo e ironia, troverà un respiro europeo. Le sue figure dai contorni chiusi, le marine liguri dipinte a Genova dopo il secondo soggiorno francese, le scene di caccia e di vita rurale restituiscono l'immagine di un artista eccentrico, capace di attraversare mondi diversissimi: dalla pittura alla progettazione di congegni meccanici. Una nota di genialità irregolare che molti empolesi ricordano ancora.
La “stanzina”: un laboratorio d'amicizia e modernità. Mentre Vincelle viaggia, altri giovani si ritrovano in una piccola stanza di via Tripoli: è lì che nasce la “stanzina”, focolare del modernismo empolese. Mario Maestrelli, Virgilio Carmignani, Sineo Gemignani, Loris Fucini, Amleto Rossi, Pietro Tognetti: ragazzi che dipingono fianco a fianco, condividono modelli, leggono riviste, discutono di ciò che accade a Firenze e nel resto d'Italia.
Quella stanza è l'equivalente empolese di una bohème: manca il caffè parigino, ma non mancano la fame di immagini, lo spirito competitivo, l'entusiasmo dei vent'anni.
Amleto Rossi: un Empoli che vola. Nato a Marcignana, diplomato a Porta Romana negli anni trenta, Rossi è forse il più narrativo del gruppo. La sua opera più celebre, Il volo del ciuco (1935), è un omaggio a una tradizione popolare empolese: un affresco su tavola che fonde ironia e ritualità. Rossi è un uomo curioso: disegnatore per “Il Corriere della Metropoli!”, illustratore, insegnante, soldato. Durante la guerra viene inviato a Torino e lavora alla FIAT come disegnatore; il conflitto lo porta lontano dalla pittura, ma non dalla sensibilità figurativa.
Rientrato a Empoli nel dopoguerra, partecipa alla mostra dei pittori empolesi del 1946 e negli anni Cinquanta avrà una stagione di intensa attività espositiva, con premi in Toscana e partecipazioni significative fuori regione. C'è un aneddoto che gli empolesi amano ricordare: a Civita di Bagnoregio, dove insegna per un periodo, stringe un legame profondo con lo scrittore Bonaventura Tecchi, tanto da dedicargli una mostra vent'anni più tardi.
Piero Sedoni: l'artista che cantava lirica. La sua figura è così empolese da sembrare un personaggio letterario. Figlio di una donna proveniente da una famiglia di mercanti d'arte e appassionato di opera lirica, Piero Sedoni era noto per cantare arie baritonali mentre dipingeva o lavorava agli allestimenti teatrali. Frequentatore della “stanzina”, compie però un percorso diverso: studia al Liceo Artistico di Firenze, si dedica alla scenografia e realizza lavori per compagnie teatrali importanti, come quella di Tommaso Salvini.
Durante la guerra serve in Libia; rientrato a Empoli, insegna, collabora con ceramisti e arredatori e porta avanti una pittura di forte eleganza grafica, con una predilezione per l'acquerello. La sua vita è un intreccio continuo fra arti diverse: pittura, scultura, ceramica, scenografia. Una versatilità che fa di lui una delle personalità più luminose della città del dopoguerra.
Gino Terreni: il partigiano che rifiutò Disney. Nessuna biografia, fra quelle esposte in Provincia Novecento, possiede la forza romanzesca di quella di Gino Terreni. Nato nel 1925 in una famiglia numerosa della Val d'Orme, entra giovanissimo nell'ambiente artistico locale grazie a Nello Alessandrini e poi agli studi a Porta Romana. Ma la storia lo travolge: dopo l'8 settembre 1943, rifiuta di rispondere alla leva della Repubblica Sociale e si unisce ai partigiani della “Carlo Rosselli”, combattendo accanto alla Brigata Garibaldi Arno.
La sua è una vita da film: un incontro imprevisto con Giorgio de Chirico, sfollato nelle campagne fra Empoli e Montespertoli; una cattura sulla Linea Gotica da cui riesce a fuggire a un plotone tedesco; una carriera artistica esplosiva dopo la guerra, tra xilografie potenti, affreschi, mosaici, opere sacre e civili in tutta Italia.
C'è un episodio che racconta molto del suo carattere: alla fine degli anni Cinquanta Walt Disney, colpito dalla sua abilità nel disegno e nella xilografia, tenta di reclutarlo nel suo staff. Terreni rifiuta. Poco dopo Picasso lo inviterà a esporre al Musée Jacquemart-André di Parigi. Terreni, combattente, xilografo, instancabile sperimentatore, resterà sempre profondamente empolese.
Pietro Tognetti: il ceramista che diventò astrattista. Tognetti incarna l'anima artigianale dell'Empoli del primo Novecento. Ceramista fin da giovane nelle fabbriche di Montelupo e Sovigliana, frequenta la “stanzina” con passione, dipinge nei ritagli di tempo, si forma più fra i coetanei che nelle scuole ufficiali. Dopo la guerra diventa direttore della ditta di ceramiche Firenzuoli, poi delle Ceramiche Victoria.
Quando nel 1965 decide di dedicarsi soltanto alla pittura, è ormai un artista maturo: abbandona il paesaggismo lirico degli esordi per un astrattismo geometrico solido e personale. Le sue Spine degli anni Settanta rappresentano uno dei momenti più alti della pittura empolese del secondo dopoguerra. Negli anni Novanta tornerà alla campagna toscana, chiudendo il cerchio della sua lunga biografia artistica.
Cafiero Tuti: l'artista con il nome anarchico che insegnava ai futuri pittori. Primo dei ragazzi della “stanzina” a studiare a Porta Romana (si iscrive nel 1923), figlio di un vetraio probabilmente vicino agli ambienti anarchici (lo farebbe supporre il suo nome insolito, che si riferirebbe al pensatore à a Carlo Cafiero), Cafiero Tuti attraversa gli anni Venti con una sensibilità politica irrequieta. Collabora a riviste come Il Selvaggio di Mino Maccari e L'Universale di Berto Ricci, esponendo un punto di vista antiborghese e anticonformista.
Dopo il diploma, diventa insegnante, vince la cattedra di Decorazione all'Accademia di Ravenna e pur spostandosi in Romagna mantiene un forte legame con Empoli. Espone alla Biennale del 1938 e lascia una serie di opere incisorie e pittoriche che testimoniano un raro equilibrio fra tradizione e inquietudine moderna.
Una città come crocevia: 1900–1960 . Le loro vite, intrecciate e diverse, raccontano un Empoli che non è soltanto vetrerie, fabbriche, stazioni ferroviarie e vie del commercio. È una città che cresce, che assorbe le trasformazioni dei primi del Novecento – dall'apertura della ferrovia Leopolda alle trasformazioni urbane – e che trova negli artisti un modo per raccontarsi.
Una provincia che voleva guardare lontano. La generazione della “stanzina” non è provinciale: Carmignani e Maestrelli vincono concorsi nazionali, Fucini e Gemignani espongono alla Biennale di Venezia, Sedoni porta le sue scenografie a Roma, Terreni arriva fino a Picasso.
Un humus sociale determinante. Molti sono figli di operai o artigiani, cresciuti fra opifici, campagne e case popolari. Nonostante questo (o forse proprio per questo), elaborano un linguaggio figurativo moderno, capace di accogliere realismo, astrazione, primitivismo, atmosfera metafisica.
Un patrimonio che torna alla città. Con Provincia Novecento, queste biografie ritornano a Empoli non come nostalgie, ma come testimonianze di un'energia creativa che ha attraversato mezzo secolo di storia italiana.
(e.ch.)