L'eco delle occupazioni studentesche che nelle scorse settimane hanno coinvolto prima il liceo Virgilio e poi il Pontormo non si spegnerà presto. Perché, al di là delle polemiche, delle prese di posizione politiche e delle preoccupazioni logistiche, queste occupazioni hanno lasciato dietro di sé qualcosa di più profondo: una lezione di cittadinanza attiva che arriva direttamente dai banchi di scuola.
Le occupazioni sono “atti illegittimi”. Eppure, nella sostanza, quelle del Virgilio e del Pontormo sono state giornate di partecipazione consapevole, di ragazzi che hanno deciso di fermare le lezioni per provare a rimettere in discussione la scuola stessa.
Non hanno chiesto meno studio, ma più senso: più spazio per capire il mondo in cui vivono, per discutere di politica internazionale, di Medio Oriente, di guerre e di pace. Hanno chiesto che la scuola non resti neutra al punto da diventare muta, che l'attualità trovi posto accanto ai manuali di storia.
E, mentre fuori si accendevano le discussioni sulle bandiere e sulle ideologie, dentro le aule occupate si parlava di educazione civica, di diritti, di come modificare i regolamenti interni per permettere agli studenti di partecipare alle manifestazioni senza subire le conseguenze di assenze collettive. In altre parole, hanno fatto ciò che spesso si chiede loro di fare: imparare a essere cittadini.
Nelle scuole empolesi non si sono visti vandalismi né scontri. Si sono visti invece dibattiti, workshop, incontri con esperti e associazioni: dalla sicurezza sul lavoro alla “pink tax”, dal conflitto israelo-palestinese alla guerra in Ucraina, fino ai temi locali come il referendum sulla Multiutility.
Gli studenti hanno costruito una scuola dentro la scuola, dimostrando che la partecipazione non è un gesto di rottura ma un atto di cura verso la comunità.
Il loro “manifesto” è stato chiaro: chiedono a chi governa il territorio di ascoltare e intervenire su problemi strutturali che denunciano da anni – infiltrazioni, muffa, bagni guasti, riscaldamenti difettosi, mancanza di sicurezza. Ma chiedono anche un'ora di dibattito mensile su temi di attualità e una revisione delle ore di educazione civica, perché non restino un elenco di buone intenzioni.
Il caso del Pontormo è diventato anche terreno di scontro politico: consiglieri, partiti e amministratori hanno visitato l'istituto, alcuni sinceramente interessati, altri forse più attratti dalla visibilità del momento. Ma ciò che resta, al di là delle bandiere, è la voce limpida degli studenti.
Una voce che ha ricordato agli adulti che la scuola non è un luogo neutro, bensì un laboratorio di democrazia.
Le occupazioni di Empoli, come quella di altre scuole nel resto del Paese, mostrano un tratto comune: la fatica di una generazione che si sente schiacciata tra una scuola ancora troppo rigida e un mondo che cambia in tempo reale. Ragazzi e ragazze che chiedono di essere ascoltati prima di arrendersi all'indifferenza.
Forse il vero lascito di queste settimane non è nelle richieste materiali – pure sacrosante – ma nell'esempio di responsabilità collettiva. Gli studenti hanno preso in mano la parola, hanno proposto, discusso, gestito spazi e relazioni con serietà.
A chi li guarda con sospetto, andrebbe ricordato che la scuola è nata per questo: per formare cittadini consapevoli, non per addestrare esecutori silenziosi.
E allora, cosa ci hanno insegnato gli studenti del Virgilio e del Pontormo?
Che la partecipazione non è un reato, ma una forma di responsabilità civile.
Che chiedere una scuola più viva non è ribellione, ma speranza.
E che, se gli adulti – che siano i genitori, gli insegnanti o gli stessi politici che hanno fatto la passerella nelle aule della protesta - hanno orecchie per ascoltare, da quelle aule occupate può ancora nascere una lezione di democrazia.