Cosa accadde 50 anni fa in quella casa di via Boccaccio 25?
24-01-2025 07:55 - Cronaca
Cosa accadde la sera del 24 gennaio 1975 nella casa al numero 25 di via Boccaccio?E' la domanda alla quale Anna Falco, la figlia più piccola del brigadiere Leonardo, cerca una risposta da cinquant'anni. Aveva 15 anni, quel giorno. Fu l'ultima volta che vide suo padre. «Uscì di casa in borghese – racconta – ci salutò e ci disse che non sarebbe rientrato la sera perché con i suoi colleghi di lavoro andava a una cena». C'era un tavolo fissato all'Osteria Bianca di Ponte a Elsa, per festeggiare l'arrivo del nuovo dirigente del commissariato. Franco Antonelli era giunto a Empoli da poche settimane, forse voleva conoscere meglio, sul piano umano, i suoi collaboratori.
Quel tavolo, rimase vuoto per tutta la sera.
Anna, sua madre e le sue due sorelle, seppero per un caso, che suo padre, insieme al collega Giovanni Ceravolo, era morto. Ucciso. In una casa che era anche a poca distanza dalla loro abitazione. «Mio padre – racconta ancora Anna Falco – sarebbe dovuto venire a prendere un suo collega che abitava accanto a casa nostra. Ma non vedendolo arrivare all'orario stabilito, venne a bussare da noi e a chiederci il motivo del ritardo. Fu il primo allarme, s'era già diffusa la notizia che c'era stata una sparatoria e il collega di mio padre disse che sarebbe andato a vedere cos'era successo. Poco dopo lo vidi tornare, ma andò dritto verso casa sua, non si fermò da noi. E questo ci allarmò. Mia sorella, allora decise di andare sul posto e scoprì lì che una delle due vittime era nostro padre».
Furono uccisi da Mario Tuti: due colpi secchi a ognuno degli agenti. Che non ebbero scampo. Restò ferito il terzo, Arturo Rocca, gravemente. Fu soccorso, portato all'ospedale, dall'altra parte della strada e operato. Poi fu trasferito in via Paladini, dove c'era il "vecchio" San Giuseppe, per la degenza. Si salvò, per fortuna ma i segni di quella sera sono rimasti indelebili per tutta la sua esistenza.
Tuti, l'autore dei due omicidi, intanto era scappato. Aveva preso l'auto della moglie, una 128 bianca, ed aveva fatto perdere le sue tracce. Per sei mesi, fino alla fine di luglio, quando fu catturato in Costa Azzurra.
Sei mesi di latitanza e di episodi strani che lo vedono protagonista. Come strano, per certi versi, è sempre sembrato, quel che avvenne quel giorno. Il 24 gennaio 1975.
Tutto iniziò con una telefonata che arrivò dalla questura di Firenze – ma l'origine della richiesta era la Procura di Arezzo – con la richiesta di verificare se un certo Mario Tuti di Empoli, avesse una Fiat 128 bianca. Al telefono – si facevano così, all'epoca i fonogrammi – furono snocciolati anche i numeri della targa. Del controllo fu incaricato Rocca. Che conosceva Tuti, che sapeva dove abitava la famiglia: via Cavour 48. Anche se lui viveva già con la moglie e un figlio piccolo, nella casa dei suoceri, in via Boccaccio 25, a poca distanza da dove da poco era stato realizzato il nuovo ospedale san Giuseppe. SI fermò dal meccanico di quella strada, chiese informazioni, ebbe la conferma che Tuti possedeva la “128”, che era della moglie, e tornò al commissariato.
A questo punto occorre fare un passo indietro. Di qualche mese. Serve a capire perché la Procura di Arezzo è interessata alla figura di Mario Tuti. Che, agli occhi della gente è un normale cittadino, con una buona posizione – è geometra dell'ufficio tecnico del Comune di Empoli – ed ha una bella famiglia. Tuti è un uomo di 29 anni, diplomato geometra, laureato in Architettura. E' un uomo brillante: frequenta uno dei locali più in voga di Empoli, in quegli anni, il K2, è appassionato di sci, ma soprattutto di armi: le colleziona, le usa, frequenta il poligono di tiro della città.
Ma il suo nome finisce nella lista dei terroristi neri, quelli di fede politica di destra, durante una inchiesta su una serie di attentati alle ferrovie, avvenuti tra Prato e Arezzo: il 21 aprile 1974 tra Vernio e Vaiano, il 31 dicembre ad Arezzo, il 6 e 7 gennaio sempre nell'Aretino. Per non parlare poi del fatto più grave, l'esplosione sull'Italicus del 4 agosto 1974 che provocò 12 morti. Ad Arezzo si indaga su questo e gli investigatori ottengono una serie di informazioni sui possibili autori: esponenti di estrema destra della città. Che vengono tenuti sotto controllo, fino al loro arresto che avviene il 23 gennaio 1975. Ma, durante i pedinamenti, viene notata un'auto, quella 128 bianca di cui si chiede la verifica al commissariato di Empoli. Non solo. Il nome di un certo Mario emerge da una intercettazione telefonica alla fidanzata di uno degli arrestati aretini che si rivolge a quest'uomo misterioso per avere conforto. E Mario, dall'altro capo del telefono, forse con la sua spavalderia allerta ancora di più gli inquirenti. «Non ti preoccupare che li tiro io fuori dal carcere. Conosco quello di Arezzo, se serve l' assalto», è più o meno quello che sentono dire al telefono che è sotto controllo.
Dunque, tornando a quel tardo pomeriggio del 24 gennaio, quando Rocca rientra con le informazioni che gli erano state chieste, vengono subito comunicate a Firenze. E da queste ad Arezzo. Che, prontamente informa che su quel tizio, su Mario Tuti, c'è un ordine di cattura che va eseguito. E nuovamente viene incaricato il commissariato di Empoli.
A svolgere questo compito, ci pensano i tre agenti: il vicebrigadiere Falco, che è in borghese e perfino disarmato, gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca.
A questo punto, quel che accade una volta varcata la soglia della casa dove Tuti abitava con la famiglia, è ricostruibile attraverso gli atti del processo, le dichiarazioni fatte – anche fuori dalle aule del tribunale – da Arturo Rocca e dalle testimonianze stesse di Tuti che, durante la sua latitanza scrive – forse solo per ricavarne dei vantaggio economico, avendo bisogno di soldi – nei memoriali che vengono vendute a testate giornalistiche. Alcuni punti fermi, però, ci sono: i tre agenti non eseguono subito l'ordine di cattura, ma effettuano un controllo sulle armi – un vero arsenale – da caccia, da guerra e militari, che Tuti possedeva. Era un cultore: aveva un piccolo laboratorio per preparare da solo le munizioni, una vera e propria biblioteca di libri e riviste sull'argomento.
E' durante questo controllo che, a un tratto, Tuti imbraccia un fucile mitragliatore, carico come altre armi di quelle trovate in casa . e fa fuoco: due colpi secchi per Falco, che è il primo a cadere. Due dirette verso Rocca che viene colpito alla vena femorale e finisce a terra. L'appuntato ferito aveva in tasca una bomba a mano che era stata appena trovata in una giacca, nell'armadio di casa Tuti. Non è da escludere che Tutti abbia mirato alle gambe per evitare l'esplosione. O che lo stesso appuntato abbia fatto un movimento per evitare che i proiettili esplosi dal padrone di casa finissero sulla bomba.
Poi altri due colpi che Tuti esplode per uccidere Ceravolo, che in quel momento si trova per strada vicino all'auto di servizio. Anche in questo caso la dinamica non è chiara: c'è chi dice che abbia sparato uscendo dal portone di casa diretto verso l'auto, chi lo ha visto sparare verso Ceravolo addirittura dalla finestra del primo piano.
La fuga di Tuti dura sei mesi. Viene ricercato in tutta Italia. Lo vedono ovunque, anche perché sulla sua cattura è stata messa una taglia di trenta milioni di lire. Una psicosi collettiva. A febbraio e a marzo vengono trovati documenti con la sua firma e una sua borsa sulle spiagge di Torre del Lago e di Vecchiano.
In questo periodo viene intercettata una sua telefonata alla mamma. Forse per far capire che era vivo. Lo cercano ovunque. Ma c'è chi giura che lui è sempre stato in Toscana. Il 20 marzo lo vede e lo riconosce, a Firenze, un giovane studente empolese di architettura. Lo segnala alle forze dell'ordine che lo fermano: mostra un documento falso e lo lasciano andare. A luglio, lo vedono addirittura in Comune a Empoli, quattro dei suoi ex colleghi di lavoro. Diranno gli investigatore che era lì per rapinare gli stipendi dei dipendenti dalla vicina Cassa di risparmio di Firenze. A Empoli ci arriva con una fiat Cinquecento che parcheggia in via dei Neri. Qualcuno la vede, prende la targa, la consegna alle forze dell'ordine. E' di un militante di destra pisano che viene messo alle strette e svela il covo, in Costa Azzurra di Mario Tuti. Che, il 27 luglio viene catturato. In Francia. Viene ferito al collo, lo operano a Marsiglia dove resta in carcere fino ad dicembre di quell'anno, quando viene estradato in Italia.
La parabola di Tuti, legata ai fatti di Empoli, si chiude qui: con una condanna all'ergastolo, per i due omicidi di via Boccaccio, in un processo-lampo, avviato il 14 maggio 1975, quando lui è ancora latitante, senza neppure entrare nel merito del suo percorso politico. E poi confermato prima in appello e poi in Cassazione. Le sue vicende personali proseguono anche in carcere, fino ai giorni nostri.
Di questa storia, però, restano indelebili, alcuni aspetti che riguardano le vittime. E la città. Che all'improvviso scopre questa tragica smagliatura in un tessuto sociale in cui si intrecciano democrazia, antifascismo, lotte sociali e liberali.
Punti fermi che vengono ribaditi il giorno del funerale, il 29 gennaio: la Collegiata è stracolma (e non soltanto di autorità civili e militari); piazza Farinata è zeppa. E lo è anche piazza Gramsci dove il sindaco di allora, Mario Assirelli e i vertici dei sindacati ribadiscono ancora il Dna antifascista di Empoli. E poi i dubbi, quelli che soprattutto i familiari delle vittime non hanno mai dissipato. E che ancora oggi, a 50 anni di distanza, restano come tanti punti interrogativi: perché furono mandati a compiere quell'arresto gli agenti di polizia empolesi e non, come era avvenuto in altre occasioni, gli agenti, specializzati, dell'antiterrorismo? Fu chiesto loro di fare subito l'arresto o quell'esigenza nacque in seguito? Sapevano i tre poliziotti lo spessore di pericolosità che rappresentava Tuti? Quali erano le sue implicazioni nelle azioni di terrorismo di quei mesi? E, ancora: chi aiutò Tuti durante la latitanza, a nascondersi e a schivare i pericoli? Perché lo Stato non si costituì parte civile al processo per l'assassinio di due suoi dipendenti?
Quel tavolo, rimase vuoto per tutta la sera.
Anna, sua madre e le sue due sorelle, seppero per un caso, che suo padre, insieme al collega Giovanni Ceravolo, era morto. Ucciso. In una casa che era anche a poca distanza dalla loro abitazione. «Mio padre – racconta ancora Anna Falco – sarebbe dovuto venire a prendere un suo collega che abitava accanto a casa nostra. Ma non vedendolo arrivare all'orario stabilito, venne a bussare da noi e a chiederci il motivo del ritardo. Fu il primo allarme, s'era già diffusa la notizia che c'era stata una sparatoria e il collega di mio padre disse che sarebbe andato a vedere cos'era successo. Poco dopo lo vidi tornare, ma andò dritto verso casa sua, non si fermò da noi. E questo ci allarmò. Mia sorella, allora decise di andare sul posto e scoprì lì che una delle due vittime era nostro padre».
Furono uccisi da Mario Tuti: due colpi secchi a ognuno degli agenti. Che non ebbero scampo. Restò ferito il terzo, Arturo Rocca, gravemente. Fu soccorso, portato all'ospedale, dall'altra parte della strada e operato. Poi fu trasferito in via Paladini, dove c'era il "vecchio" San Giuseppe, per la degenza. Si salvò, per fortuna ma i segni di quella sera sono rimasti indelebili per tutta la sua esistenza.
Tuti, l'autore dei due omicidi, intanto era scappato. Aveva preso l'auto della moglie, una 128 bianca, ed aveva fatto perdere le sue tracce. Per sei mesi, fino alla fine di luglio, quando fu catturato in Costa Azzurra.
Sei mesi di latitanza e di episodi strani che lo vedono protagonista. Come strano, per certi versi, è sempre sembrato, quel che avvenne quel giorno. Il 24 gennaio 1975.
Tutto iniziò con una telefonata che arrivò dalla questura di Firenze – ma l'origine della richiesta era la Procura di Arezzo – con la richiesta di verificare se un certo Mario Tuti di Empoli, avesse una Fiat 128 bianca. Al telefono – si facevano così, all'epoca i fonogrammi – furono snocciolati anche i numeri della targa. Del controllo fu incaricato Rocca. Che conosceva Tuti, che sapeva dove abitava la famiglia: via Cavour 48. Anche se lui viveva già con la moglie e un figlio piccolo, nella casa dei suoceri, in via Boccaccio 25, a poca distanza da dove da poco era stato realizzato il nuovo ospedale san Giuseppe. SI fermò dal meccanico di quella strada, chiese informazioni, ebbe la conferma che Tuti possedeva la “128”, che era della moglie, e tornò al commissariato.
A questo punto occorre fare un passo indietro. Di qualche mese. Serve a capire perché la Procura di Arezzo è interessata alla figura di Mario Tuti. Che, agli occhi della gente è un normale cittadino, con una buona posizione – è geometra dell'ufficio tecnico del Comune di Empoli – ed ha una bella famiglia. Tuti è un uomo di 29 anni, diplomato geometra, laureato in Architettura. E' un uomo brillante: frequenta uno dei locali più in voga di Empoli, in quegli anni, il K2, è appassionato di sci, ma soprattutto di armi: le colleziona, le usa, frequenta il poligono di tiro della città.
Ma il suo nome finisce nella lista dei terroristi neri, quelli di fede politica di destra, durante una inchiesta su una serie di attentati alle ferrovie, avvenuti tra Prato e Arezzo: il 21 aprile 1974 tra Vernio e Vaiano, il 31 dicembre ad Arezzo, il 6 e 7 gennaio sempre nell'Aretino. Per non parlare poi del fatto più grave, l'esplosione sull'Italicus del 4 agosto 1974 che provocò 12 morti. Ad Arezzo si indaga su questo e gli investigatori ottengono una serie di informazioni sui possibili autori: esponenti di estrema destra della città. Che vengono tenuti sotto controllo, fino al loro arresto che avviene il 23 gennaio 1975. Ma, durante i pedinamenti, viene notata un'auto, quella 128 bianca di cui si chiede la verifica al commissariato di Empoli. Non solo. Il nome di un certo Mario emerge da una intercettazione telefonica alla fidanzata di uno degli arrestati aretini che si rivolge a quest'uomo misterioso per avere conforto. E Mario, dall'altro capo del telefono, forse con la sua spavalderia allerta ancora di più gli inquirenti. «Non ti preoccupare che li tiro io fuori dal carcere. Conosco quello di Arezzo, se serve l' assalto», è più o meno quello che sentono dire al telefono che è sotto controllo.
Dunque, tornando a quel tardo pomeriggio del 24 gennaio, quando Rocca rientra con le informazioni che gli erano state chieste, vengono subito comunicate a Firenze. E da queste ad Arezzo. Che, prontamente informa che su quel tizio, su Mario Tuti, c'è un ordine di cattura che va eseguito. E nuovamente viene incaricato il commissariato di Empoli.
A svolgere questo compito, ci pensano i tre agenti: il vicebrigadiere Falco, che è in borghese e perfino disarmato, gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca.
A questo punto, quel che accade una volta varcata la soglia della casa dove Tuti abitava con la famiglia, è ricostruibile attraverso gli atti del processo, le dichiarazioni fatte – anche fuori dalle aule del tribunale – da Arturo Rocca e dalle testimonianze stesse di Tuti che, durante la sua latitanza scrive – forse solo per ricavarne dei vantaggio economico, avendo bisogno di soldi – nei memoriali che vengono vendute a testate giornalistiche. Alcuni punti fermi, però, ci sono: i tre agenti non eseguono subito l'ordine di cattura, ma effettuano un controllo sulle armi – un vero arsenale – da caccia, da guerra e militari, che Tuti possedeva. Era un cultore: aveva un piccolo laboratorio per preparare da solo le munizioni, una vera e propria biblioteca di libri e riviste sull'argomento.
E' durante questo controllo che, a un tratto, Tuti imbraccia un fucile mitragliatore, carico come altre armi di quelle trovate in casa . e fa fuoco: due colpi secchi per Falco, che è il primo a cadere. Due dirette verso Rocca che viene colpito alla vena femorale e finisce a terra. L'appuntato ferito aveva in tasca una bomba a mano che era stata appena trovata in una giacca, nell'armadio di casa Tuti. Non è da escludere che Tutti abbia mirato alle gambe per evitare l'esplosione. O che lo stesso appuntato abbia fatto un movimento per evitare che i proiettili esplosi dal padrone di casa finissero sulla bomba.
Poi altri due colpi che Tuti esplode per uccidere Ceravolo, che in quel momento si trova per strada vicino all'auto di servizio. Anche in questo caso la dinamica non è chiara: c'è chi dice che abbia sparato uscendo dal portone di casa diretto verso l'auto, chi lo ha visto sparare verso Ceravolo addirittura dalla finestra del primo piano.
La fuga di Tuti dura sei mesi. Viene ricercato in tutta Italia. Lo vedono ovunque, anche perché sulla sua cattura è stata messa una taglia di trenta milioni di lire. Una psicosi collettiva. A febbraio e a marzo vengono trovati documenti con la sua firma e una sua borsa sulle spiagge di Torre del Lago e di Vecchiano.
In questo periodo viene intercettata una sua telefonata alla mamma. Forse per far capire che era vivo. Lo cercano ovunque. Ma c'è chi giura che lui è sempre stato in Toscana. Il 20 marzo lo vede e lo riconosce, a Firenze, un giovane studente empolese di architettura. Lo segnala alle forze dell'ordine che lo fermano: mostra un documento falso e lo lasciano andare. A luglio, lo vedono addirittura in Comune a Empoli, quattro dei suoi ex colleghi di lavoro. Diranno gli investigatore che era lì per rapinare gli stipendi dei dipendenti dalla vicina Cassa di risparmio di Firenze. A Empoli ci arriva con una fiat Cinquecento che parcheggia in via dei Neri. Qualcuno la vede, prende la targa, la consegna alle forze dell'ordine. E' di un militante di destra pisano che viene messo alle strette e svela il covo, in Costa Azzurra di Mario Tuti. Che, il 27 luglio viene catturato. In Francia. Viene ferito al collo, lo operano a Marsiglia dove resta in carcere fino ad dicembre di quell'anno, quando viene estradato in Italia.
La parabola di Tuti, legata ai fatti di Empoli, si chiude qui: con una condanna all'ergastolo, per i due omicidi di via Boccaccio, in un processo-lampo, avviato il 14 maggio 1975, quando lui è ancora latitante, senza neppure entrare nel merito del suo percorso politico. E poi confermato prima in appello e poi in Cassazione. Le sue vicende personali proseguono anche in carcere, fino ai giorni nostri.
Di questa storia, però, restano indelebili, alcuni aspetti che riguardano le vittime. E la città. Che all'improvviso scopre questa tragica smagliatura in un tessuto sociale in cui si intrecciano democrazia, antifascismo, lotte sociali e liberali.
Punti fermi che vengono ribaditi il giorno del funerale, il 29 gennaio: la Collegiata è stracolma (e non soltanto di autorità civili e militari); piazza Farinata è zeppa. E lo è anche piazza Gramsci dove il sindaco di allora, Mario Assirelli e i vertici dei sindacati ribadiscono ancora il Dna antifascista di Empoli. E poi i dubbi, quelli che soprattutto i familiari delle vittime non hanno mai dissipato. E che ancora oggi, a 50 anni di distanza, restano come tanti punti interrogativi: perché furono mandati a compiere quell'arresto gli agenti di polizia empolesi e non, come era avvenuto in altre occasioni, gli agenti, specializzati, dell'antiterrorismo? Fu chiesto loro di fare subito l'arresto o quell'esigenza nacque in seguito? Sapevano i tre poliziotti lo spessore di pericolosità che rappresentava Tuti? Quali erano le sue implicazioni nelle azioni di terrorismo di quei mesi? E, ancora: chi aiutò Tuti durante la latitanza, a nascondersi e a schivare i pericoli? Perché lo Stato non si costituì parte civile al processo per l'assassinio di due suoi dipendenti?