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La cronaca diventa racconto/ Quando i segnali arrivano... dal cielo

14-11-2025 08:41 - Cronaca


L’aria dell’Appennino profumava già d’autunno, con il sole che si frantumava in mille riflessi sul parabrezza della sua vecchia station wagon. Claudio Taffarel guidava da solo, mani ferme sul volante, lo sguardo acceso come chi, a quasi quarant’anni, cerca ancora una strada nuova. Era il 24 settembre del 2003 e il mondo – intorno a lui – sembrava girare più piano, come se volesse lasciargli il tempo per riflettere.
Aveva lasciato Parma all’alba, senza fanfare. Una borsa da calcio nel bagagliaio, qualche crocifisso benedetto appeso allo specchietto retrovisore, e una valigia compatta piena di maglie che odoravano ancora di talco e ricordi. Sarebbe arrivato a Empoli per pranzo, si sarebbe allenato nel pomeriggio, avrebbe sorriso ai fotografi, magari con quella sua timidezza tutta brasiliana, da uomo che aveva toccato la gloria ma non aveva mai smesso di abbassare lo sguardo quando lo lodavano troppo.
Lo avevano chiamato per fare il terzo portiere. Una panchina, forse solo per due domeniche, mentre Bucci scontava la squalifica. Una parentesi tranquilla, senza pressioni, da vivere col cuore leggero. Eppure, dentro di lui, qualcosa non suonava nel modo giusto. Un accordo firmato la sera prima non sempre equivale a un desiderio realizzato.

All’altezza di Roncobilaccio, quando l’Autosole comincia a sbottonarsi tra le gallerie e le curve, l’auto lanciò un sussurro meccanico, un gemito sommesso, come il respiro affannoso di un atleta stanco. Si accesero due spie rosse sul cruscotto. Claudio accostò con calma, il motore ancora vivo, ma incerto.
Scese dall’auto e si guardò attorno. Il paesaggio era silenzioso, mosso solo da un vento lieve che accarezzava i pini. Un’area di servizio, poco più avanti. Una fortuna. O un segno.
Il meccanico, un uomo robusto con le mani sporche d’olio e una sigaretta spenta all’angolo della bocca, gli sorrise quando gli disse chi fosse.
«Taffarel? Quello del rigore di Baggio? Ma davvero?»
Claudio annuì, ma senza entusiasmo. La voce bassa, quasi imbarazzata:
«Ora vado a Empoli. Mi hanno chiamato. Un ruolo tranquillo...»
Il meccanico infilò la testa sotto il cofano, controllò, borbottò qualcosa.
«Non è grave. Ma ci vorrà un po’. Deve aspettare.»
Claudio si allontanò e si sedette sul muretto, sotto un cartello sbiadito che indicava Firenze Sud 73 km.
E lì, mentre l’asfalto tremolava sotto il sole di fine settembre, sentì il tempo aprirsi come un libro. Si ritrovò a sfogliare pagine che pensava archiviate: il boato di Pasadena, la mano di Dio che lo aveva abbracciato nel ’94, quando sollevò la Coppa del Mondo; il rigore di Massaro, la corsa a braccia aperte; la parrocchia di Reggio Emilia dove, con i ragazzini del Preziosissimo Cuore, giocava da centravanti, con la maglia larga e la gioia vera.
Cosa ci faceva ora, lì, su una statale italiana, a quasi quarant’anni, aspettando un meccanico per andare a fare il terzo portiere in una squadra toscana?
Che cosa stava cercando?
Quando la macchina fu pronta, Claudio pagò in contanti.
«Allora si rimette in viaggio?» chiese il meccanico.
Taffarel sorrise, ma non rispose.
Sotto il rumore del motore riacceso, c’era un’altra voce, più profonda. Una voce che veniva da dentro.
“Questo guasto non è stato un caso,” pensava. “È Dio che mi parla.”
Al primo casello utile, fece inversione. Senza rabbia. Senza rimpianti.
Quel pomeriggio, ad Empoli, lo aspettavano. La divisa era pronta, le maglie numerate, le foto da fare, i documenti da firmare.
Ma Claudio non arrivò mai.
Rispose il giorno dopo con un messaggio scritto a mano, vergato piano, con l’umiltà dei grandi.
“Chiedo perdono prima di tutto a Dio. Poi all’Empoli, alla società e ai suoi tifosi. Il guasto alla macchina mi ha fatto pensare. Ho capito di aver chiuso con questo sport.”
E così, con un rumore d’auto e una preghiera silenziosa, finì la carriera di uno dei portieri più spirituali che il calcio abbia mai conosciuto.
Non con un’ovazione. Non con una parata.
Ma con un ritorno a casa.
Verso il Brasile. Verso se stesso.
Oggi Claudio Taffarel allena i portieri della Seleção, parla poco, prega spesso. Nelle sue mani guida ragazzi più giovani verso la porta, insegna a difendere i sogni e le responsabilità. Ma la porta più importante, lui, l’ha chiusa quel giorno sull’Autosole. Con gratitudine. Con fede.
Con la certezza che, ogni tanto, i guasti non sono guasti.
Sono miracoli travestiti.

(4.a puntata. Le precedenti: 3.a - Davor Cop, l'attaccante che somigliava... solo a se stesso- 2.a - La sera che la televisione regalò un sogno da piazza dei Leoni/ 1.a - Quella volta che i tifosi dell'Empoli furono sospettati di rapimento)