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Si fa presto a dire malagiustizia…la persona sbagliata alla mercè di un incubo

09-08-2025 09:19 - Opinioni
di Stefano Tamburini

Certo, la malagiustizia esiste. Certo, il Sistema non è perfetto. Certo, come per altri contesti, dietro a tutto ci sono donne e uomini che operano e possono anche sbagliare. Certo, “possono” ma agli errori si può sempre rimediare e non è per caso che nel nostro Sistema c'è una magistratura che indaga e una che giudica le indagini prima ancora che, eventualmente, arrivi il processo vero e proprio. E poi ci sono i tre gradi di giudizio… e poi, e poi... Certo, e poi… E poi ci sono anche gli errori che restano tali per via di donne e uomini incapaci o indolenti. O menefreghisti. E non si sa quale fra le tre sia la cosa peggiore.

La storia che segue potrebbe addirittura sembrare inverosimile e invece, purtroppo, è vera. Ho buone fonti per affermarlo, visto che il protagonista in negativo sono io. E lo dico subito, questa non è malagiustizia. Questa è storia di incapacità umana, di sequenze di semplificazioni che portano nel baratro dell'incubo di Odissee fin troppo tristi. Itaca probabilmente un giorno arriverà. Ma adesso mi sento come uno che deve navigare nel mare in burrasca e che sulla barca sballottata dalle onde dell'insipienza non avrebbe mai dovuto esserci. Non menzionerò luoghi, giornale, editore e avvocati coinvolti, perché non conta il dove ma il come. Parto dall'inizio. Siamo nel 2016. E in una Procura della Repubblica perviene una fra le tante querele per diffamazione a mezzo stampa. L'avvocato la firma per conto del cliente, cita un articolo di giornale, lo allega e chiede di perseguire quelli che per lui sono i “colpevoli”. E cioè, l'autore dell'articolo e il direttore responsabile di quel giornale, anche se lui ha in mano solo il nome dell'autore visto che l'articolo è firmato ma ovviamente non può avere le generalità complete.

La querela, come per ogni caso del genere, viene smistata agli uffici di polizia giudiziaria. Scena immaginaria ma non troppo. Due agenti o due carabinieri o due finanzieri oppure uno di un Corpo e uno di un altro, si rigirano fra le mani quella querela. Bisogna identificare sia l'autore dell'articolo sia il direttore, inserendo le generalità complete. Di solito quelli cosa fanno? Vanno nella redazione del giornale in questione e chiedono in segreteria dove di solito non hanno problemi a fornire ogni tipo di informazione. Stavolta, niente di tutto questo: fa caldo, meglio restare al riparo dell'aria condizionata. Il primo chiede all'altro di aprire quel giornale e dare un'occhiata alla gerenza, quel quadratino in basso che di solito è in una delle pagine dei commenti o in quella del meteo: «Guarda un po' come si chiama il direttore?». L'altro distoglie lo sguardo dalla battaglia navale sul computer e guarda quel nome: «Si chiama Stefano Tamburini». Vai, fatto: quelli procedono con la ricerca all'anagrafe e mettono a verbale. Peraltro l'informazione che cercavano era disponibile al piano di sopra, nella cancelleria del Tribunale dove c'è il registro della stampa, dove vengono custodite tutte le informazioni su ogni testata. Epperò, vuoi mettere? Fa caldo, fare anche un piano di scale…

Solo che se lo avessero fatto si sarebbero accorti che alla data di pubblicazione di quell'articolo il direttore era un altro. Così loro inseriscono il nome sbagliato, proseguono con la loro battaglia navale al computer, che l'ora del pranzo si avvicina. Nel pomeriggio passeranno tutto al magistrato che indaga, o meglio dovrebbe farlo. Che poi lo faccia veramente è tutto da dimostrare. Di questa cosa non si saprà più niente per quasi due anni. Fino a quando, al domicilio dei querelati si presenta un agente di polizia con la notifica della “conclusione delle indagini”. Nell'atto si menziona genericamente il titolo di un articolo, lì per lì non ci faccio caso. Poi guardo la data di pubblicazione e mi accorgo che quella data è antecedente, di 14 giorni, rispetto a quella del mio insediamento come direttore di quel giornale. Di fatto quel documento è una sorta di avviso di garanzia dove c'è un copia incolla di passaggi della querela, nulla che sia stato aggiunto dal magistrato inquirente. Il dubbio che abbia indagato veramente c'è, anche perché so che non ha mai interrogato l'autore dell'articolo, né potenziali fonti di prova. E ovviamente non ha mai cercato neppure il sottoscritto. Né mai lo faranno altri magistrati fino al processo. A quel punto non mi resta che informare l'ufficio legale dell'editore e l'avvocato che segue le cause del giornale con una mail dove spiego semplicemente che alla Procura della Repubblica di (omissis) si sono sbagliati. Confido che la cosa si possa chiudere lì.

E invece no. A questo punto riassumo gli altri passaggi. Quelli delle varie tappe, almeno otto: richiesta di rinvio a giudizio, fissazione dell'udienza preliminare, rinvio della stessa udienza, rinvio a giudizio, prima fissazione del processo, solleciti vari a intervenire. Passano anni e io ogni volta scrivo all'ufficio legale dell'editore e all'avvocato del giornale interessato (che nel frattempo cambia, non per scelta, purtroppo il primo che segue il caso morirà nel bel mezzo del cammin di questa causa). Ogni volta vengo rassicurato ma sono parole al vento. Finte come una moneta da tre euro. Così il processo va avanti. Nel frattempo io cambio più incarichi e, a un certo punto, anche editore. Ovviamente al momento dell'uscita si sottoscrive un atto con il quale l'azienda si impegna a coprire tutte le spese legali di situazioni pregresse (magari ci fosse solo questa…) fino al loro esaurimento.

Altra puntualizzazione: così a spanne, in oltre 40 anni di carriera credo di essere arrivato a circa 120-130 procedimenti giudiziari, tutti conclusi con l'archiviazione, il proscioglimento o l'assoluzione. Mai una condanna. Ma nel caso specifico questo poco conta, il querelante potrebbe essere anche nel pieno della ragione e i querelati nel pieno della parte del torto. Sì, perché io in quel procedimento giudiziario non dovrei esserci. Il processo viene celebrato a marzo del 2025, quasi nove anni dopo la pubblicazione di quell'articolo. E io non ricevo nessuna notifica preventiva, forse l'avranno mandata all'avvocato. Che si guarda bene dall'avvertirmi, forse temeva che gli ricordassi per l'ennesima volta che io non avrei dovuto essere processato.

In tribunale non viene emessa sentenza perché il reato comunque sia è prescritto. Dunque lieto fine? No, perché il 7 agosto del 2025 mi viene recapitata una raccomandata dell'avvocato del querelante che chiede la disponibilità a conciliare sul piano civile (vuole soldi, tanti) dando per scontato quello che la sentenza penale non ha potuto appurare. E cioè che ci sia stata veramente diffamazione. Stavolta non mette in mezzo il giornale e l'editore ma va dritto alla giugulare del direttore e dell'autore dell'articolo. Il problema è che c'è comunque una sentenza, sia pure di prescrizione, che lega il mio nome alla pubblicazione di un articolo. L'accusa di omesso controllo resta. Anche se prescritta. Anche (e soprattutto) se io quando è stato pubblicato quell'articolo non ero ancora il direttore del giornale al centro del caso.

Tutto quanto resta in piedi perché non ci sono stati solo quei due agenti della polizia giudiziaria della Procura a recitare la parte degli sprovveduti incapaci. Ci sono anche altri attori che o sono incapaci oppure, nel caso degli avvocati, si sono potenzialmente esposti a un'accusa di “infedele patrocinio”. Temo che sia stato fatto un calcolo demenziale, del tipo “tanto andrà a finire in prescrizione, perché rompersi le palle a segnalare un errore con il rischio che ci sia da ricominciare tutto da capo”. In pratica, per evitare di lavorare una mezz'ora in più se ne sono sbattuti e hanno lasciato il mio nome alla mercé di un incubo.

E in ogni caso troppe persone non hanno saputo fare il loro mestiere. Il loro stipendio è assicurato, così come le loro parcelle. Io, che non sono più alle dipendenze di quell'editore, oggi però devo perdere del tempo prezioso per lavorare all'ennesima memoria da spedire agli indirizzi di quelli che finora il caso non lo hanno risolto. Ovviamente, gratis (ma poi si vedrà…). Con l'amarezza di essere ancora nel vortice di un incubo semplicemente perché in giro ci sono ancora troppe persone che pensano che siano gli altri a doverci pensare e se in fondo poi ci va di mezzo chi non c'entra… “cavoli suoi”.

Ecco, però, stavolta non finisce qui. Non finirà nemmeno se e quando sarò finalmente fuori da questo incubo. Perché a un certo punto bisognerà chiuderla per sempre la stagione del perdono degli incapaci o di quelli che prosperano sulla base del motto “ecchissenefrega”. No, il nostro non è un mondo avvelenato da malagiustizia (per carità, ci sarà anche quella) ma dall'insipienza dell'uomo. E ribellarsi diventa un dovere civico.