Violenza domestica, il nuovo sguardo della Cassazione: una lezione per il Paese
08-12-2025 14:48 - Opinioni
di Danilo Di Stefano*
Non tutte le sentenze hanno lo stesso peso nella vita pubblica. Alcune, pur riguardando un singolo caso, riescono a
illuminare un intero fenomeno sociale, restituendogli la complessità che troppo spesso il dibattito pubblico appiattisce. È esattamente ciò che accade con la decisione della Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione depositata lo scorso settembre, relativa a una vicenda di violenza domestica che per anni ha ingabbiato una giovane donna in un ciclo di maltrattamenti fisici e psicologici. Più che un pronunciamento tecnico, questa sentenza è uno sguardo profondo sulle dinamiche della violenza nelle relazioni affettive, sulle difficoltà di chi la subisce e sui luoghi comuni che troppo spesso condizionano giudizi e opinioni. La Corte parte da un punto tanto semplice quanto fondamentale: la parola della vittima è una prova. Non un indizio debole, non un racconto sotto sospetto, ma una testimonianza che – se coerente, logica e priva di contraddizioni – può bastare a fondare una condanna. È un chiarimento importante, perché va contro l’idea, ancora radicata, che senza testimoni, referti o registrazioni “non si possa dire nulla di certo”. La Cassazione spiega che questa pretesa è irrealistica e, nei fatti, ingiusta: nella maggior parte dei casi di maltrattamenti domestici, la violenza avviene in spazi privati, spesso senza testimoni e con l’attenzione costante a non lasciare segni visibili. Per questo, ciò che conta è la credibilità complessiva del racconto, valutata con attenzione e rigore. E in questo caso, nota la Corte, il quadro tracciato dalla giovane donna – fatto di botte, minacce, isolamento e svalutazioni continue – è apparso costante nel tempo, supportato da messaggi, certificazioni mediche e soprattutto da un filo logico che attraversa l’intera vicenda. Uno dei passaggi più interessanti della sentenza riguarda il richiamo al cosiddetto “ciclo della violenza”, una dinamica ben conosciuta dagli esperti e dagli operatori di polizia: tensione crescente, esplosione della violenza, fasi di apparente pentimento e nuove ricadute. La Corte utilizza questa chiave di lettura per spiegare comportamenti che, a occhi poco esperti, potrebbero sembrare contraddittori: fughe, ritorni, ripensamenti, ambivalenze emotive. Questa alternanza non è un indice di inattendibilità, ma un tratto tipico delle relazioni maltrattanti: la vittima resta imprigionata in una spirale affettiva e psicologica che rende difficile la decisione di allontanarsi definitivamente. Ed è qui che la sentenza compie un passo decisivo: il diritto non può chiedere alla vittima di comportarsi come un personaggio ideale, lineare, razionale, immune dalle fragilità umane. Deve invece confrontarsi con la realtà dei legami, delle paure, delle dipendenze economiche ed emotive. Un altro punto centrale riguarda la violenza psicologica, troppo spesso ignorata solo perché “non lascia lividi”. Nelle righe della sentenza emergono dettagli che raccontano meglio di mille definizioni cosa significhi vivere sotto controllo: isolamento dai familiari, svalutazioni, minacce, imposizione di comportamenti anche economici. Una pressione costante, invisibile, che logora giorno dopo giorno e che spesso anticipa e accompagna la violenza fisica. La Cassazione ribadisce che il reato di maltrattamenti non richiede necessariamente colpi o ferite visibili, e ricorda che la violenza domestica è un sistema, non un episodio isolato. Nell’esaminare il ritardo nella denuncia, la Corte smonta un pregiudizio diffuso: chi subisce violenza non denuncia subito, non perché non sia credibile, ma perché spesso non ha ancora trovato la forza, le risorse, la protezione necessaria per farlo. La vittima non denuncia quando noi “pensiamo che avrebbe dovuto farlo”, ma quando raggiunge un punto di rottura: quando la paura supera l’amore, quando la vita diventa insostenibile. Pretendere che chi subisce violenza agisca secondo uno schema ideale significa non comprendere davvero il fenomeno. Gli operatori delle forze di polizia che intervengono nei contesti familiari sanno che quasi nessuna storia di violenza emerge al primo episodio: spesso la pattuglia arriva davanti a una porta che è stata chiusa troppe volte, per troppo tempo. E dietro quella porta trovano non solo paura, ma confusione, senso di colpa, dipendenza emotiva, sfiducia nelle istituzioni. Ciò che la Cassazione afferma – la centralità della parola della vittima, la necessità di leggere i comportamenti nel loro contesto, l’importanza di riconoscere la violenza psicologica – è esattamente ciò che gli operatori vedono quotidianamente sul campo. Una vittima non è mai solo “un teste”: è una persona che ha bisogno di tempo, protezione, ascolto competente. Riconoscere questa realtà non è un dettaglio giuridico: è una condizione essenziale per fare buona prevenzione e buona giustizia. Una decisione come questa della Sesta Sezione della Cassazione, dunque, ha un impatto che va oltre le aule di tribunale: rafforza l’importanza di raccogliere dichiarazioni tempestive, contestuali, senza minimizzare contraddizioni apparenti; incentiva un approccio formativo più solido sulla violenza psicologica e sul ciclo della violenza; ribadisce la piena dignità probatoria della testimonianza della vittima; domanda una valutazione più attenta del contesto relazionale, non solo dei singoli episodi; invita a considerare i ritardi nella denuncia non come anomalie, ma come elementi tipici del fenomeno. Una sentenza, insomma, che parla alla giustizia e alla società. In un momento storico in cui la violenza nelle relazioni affettive è finalmente al centro dell’attenzione pubblica, questa pronuncia aggiunge un tassello importante: ricorda che la legge non è solo un codice, ma un filtro interpretativo della realtà, uno strumento per leggerla e – quando necessario – per cambiarla. Perché non esiste una “vittima perfetta”. Esistono persone che vivono situazioni difficili, spesso per anni, e che meritano ascolto, protezione e giustizia. E la giustizia, per essere davvero tale, deve saper guardare dentro le vite, non solo dentro gli atti processuali.
illuminare un intero fenomeno sociale, restituendogli la complessità che troppo spesso il dibattito pubblico appiattisce. È esattamente ciò che accade con la decisione della Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione depositata lo scorso settembre, relativa a una vicenda di violenza domestica che per anni ha ingabbiato una giovane donna in un ciclo di maltrattamenti fisici e psicologici. Più che un pronunciamento tecnico, questa sentenza è uno sguardo profondo sulle dinamiche della violenza nelle relazioni affettive, sulle difficoltà di chi la subisce e sui luoghi comuni che troppo spesso condizionano giudizi e opinioni. La Corte parte da un punto tanto semplice quanto fondamentale: la parola della vittima è una prova. Non un indizio debole, non un racconto sotto sospetto, ma una testimonianza che – se coerente, logica e priva di contraddizioni – può bastare a fondare una condanna. È un chiarimento importante, perché va contro l’idea, ancora radicata, che senza testimoni, referti o registrazioni “non si possa dire nulla di certo”. La Cassazione spiega che questa pretesa è irrealistica e, nei fatti, ingiusta: nella maggior parte dei casi di maltrattamenti domestici, la violenza avviene in spazi privati, spesso senza testimoni e con l’attenzione costante a non lasciare segni visibili. Per questo, ciò che conta è la credibilità complessiva del racconto, valutata con attenzione e rigore. E in questo caso, nota la Corte, il quadro tracciato dalla giovane donna – fatto di botte, minacce, isolamento e svalutazioni continue – è apparso costante nel tempo, supportato da messaggi, certificazioni mediche e soprattutto da un filo logico che attraversa l’intera vicenda. Uno dei passaggi più interessanti della sentenza riguarda il richiamo al cosiddetto “ciclo della violenza”, una dinamica ben conosciuta dagli esperti e dagli operatori di polizia: tensione crescente, esplosione della violenza, fasi di apparente pentimento e nuove ricadute. La Corte utilizza questa chiave di lettura per spiegare comportamenti che, a occhi poco esperti, potrebbero sembrare contraddittori: fughe, ritorni, ripensamenti, ambivalenze emotive. Questa alternanza non è un indice di inattendibilità, ma un tratto tipico delle relazioni maltrattanti: la vittima resta imprigionata in una spirale affettiva e psicologica che rende difficile la decisione di allontanarsi definitivamente. Ed è qui che la sentenza compie un passo decisivo: il diritto non può chiedere alla vittima di comportarsi come un personaggio ideale, lineare, razionale, immune dalle fragilità umane. Deve invece confrontarsi con la realtà dei legami, delle paure, delle dipendenze economiche ed emotive. Un altro punto centrale riguarda la violenza psicologica, troppo spesso ignorata solo perché “non lascia lividi”. Nelle righe della sentenza emergono dettagli che raccontano meglio di mille definizioni cosa significhi vivere sotto controllo: isolamento dai familiari, svalutazioni, minacce, imposizione di comportamenti anche economici. Una pressione costante, invisibile, che logora giorno dopo giorno e che spesso anticipa e accompagna la violenza fisica. La Cassazione ribadisce che il reato di maltrattamenti non richiede necessariamente colpi o ferite visibili, e ricorda che la violenza domestica è un sistema, non un episodio isolato. Nell’esaminare il ritardo nella denuncia, la Corte smonta un pregiudizio diffuso: chi subisce violenza non denuncia subito, non perché non sia credibile, ma perché spesso non ha ancora trovato la forza, le risorse, la protezione necessaria per farlo. La vittima non denuncia quando noi “pensiamo che avrebbe dovuto farlo”, ma quando raggiunge un punto di rottura: quando la paura supera l’amore, quando la vita diventa insostenibile. Pretendere che chi subisce violenza agisca secondo uno schema ideale significa non comprendere davvero il fenomeno. Gli operatori delle forze di polizia che intervengono nei contesti familiari sanno che quasi nessuna storia di violenza emerge al primo episodio: spesso la pattuglia arriva davanti a una porta che è stata chiusa troppe volte, per troppo tempo. E dietro quella porta trovano non solo paura, ma confusione, senso di colpa, dipendenza emotiva, sfiducia nelle istituzioni. Ciò che la Cassazione afferma – la centralità della parola della vittima, la necessità di leggere i comportamenti nel loro contesto, l’importanza di riconoscere la violenza psicologica – è esattamente ciò che gli operatori vedono quotidianamente sul campo. Una vittima non è mai solo “un teste”: è una persona che ha bisogno di tempo, protezione, ascolto competente. Riconoscere questa realtà non è un dettaglio giuridico: è una condizione essenziale per fare buona prevenzione e buona giustizia. Una decisione come questa della Sesta Sezione della Cassazione, dunque, ha un impatto che va oltre le aule di tribunale: rafforza l’importanza di raccogliere dichiarazioni tempestive, contestuali, senza minimizzare contraddizioni apparenti; incentiva un approccio formativo più solido sulla violenza psicologica e sul ciclo della violenza; ribadisce la piena dignità probatoria della testimonianza della vittima; domanda una valutazione più attenta del contesto relazionale, non solo dei singoli episodi; invita a considerare i ritardi nella denuncia non come anomalie, ma come elementi tipici del fenomeno. Una sentenza, insomma, che parla alla giustizia e alla società. In un momento storico in cui la violenza nelle relazioni affettive è finalmente al centro dell’attenzione pubblica, questa pronuncia aggiunge un tassello importante: ricorda che la legge non è solo un codice, ma un filtro interpretativo della realtà, uno strumento per leggerla e – quando necessario – per cambiarla. Perché non esiste una “vittima perfetta”. Esistono persone che vivono situazioni difficili, spesso per anni, e che meritano ascolto, protezione e giustizia. E la giustizia, per essere davvero tale, deve saper guardare dentro le vite, non solo dentro gli atti processuali. (*) Responsabile del Dipartimento Sicurezza e Legalità di Fratelli d’Italia – Provinciale Firenze; già Commissario Capo della Polizia di Stato.






